La conquista turca di Otranto

Vista dal mare, Otranto appare ancora una fortezza, con i bastioni a picco sull’acqua, ma dietro la vuota abbondanza di mura e torrioni, un prodigio di viuzze bianche in salita, in discesa, di casette bianche, di palazzotti tufacei. In queste viuzze i fatti della storia sono rimbalzati, come pomi maturi, da un secolo all’altro, e giunti fino a noi: qui le palle delle bombarde turche, scagliate cinquecento anni fa, reggono i gradini d’accesso alle case o adornano la soglia al “salone” del barbiere, all’ufficio postale, situate ai due lati dell’ingresso” (Maria Corti, L’ora di tutti, 1962).

(Per la foto sopra, ringraziamo Carl Butz su http://www.flickr.com/photos/carl-butz/5054861486/)

Da armi a complementi d’arredo: quelle palle delle bombarde turche che ieri colpirono a morte la popolazione otrantina, oggi decorano il centro storico e attraggono la curiosità dei turisti che amano fotografarle, forse non tutti consapevoli di quel che rappresentano nella memoria storica e civile.

Era il 28 luglio 1480. Una flotta turca (di oltre 10mila uomini), guidata da Gedik Ahmet Pascià, sbarcò nei pressi dei laghi Alimini, a nord di Otranto. Gli storici non sanno dire, esattamente, quali furono le intenzioni del sultano Maometto II nell’ordinare la spedizione. Secondo una delle ipotesi più avvalorate, c’era la volontà di creare una base strategica per rafforzare il controllo dei Turchi sull’Adriatico, e non c’era momento migliore di quello per farlo, giacché le contese fra i vari Stati italiani erano all’ordine del giorno e li rendevano deboli. Il “Conquistatore di Costantinopoli”, inoltre, sapeva che non sarebbe stato ostacolato dalla Repubblica di Venezia con cui era sceso a patti, dopo una guerra durata 16 anni (dal 1463 al 1479).

L’11 agosto 1480, un’altra data importante. Gli Ottomani entrano a Otranto (allora città regia, popolata da circa 5mila abitanti) e si dirigono all’interno della cattedrale (oggi famosa perché custodisce, all’interno di sette armadi nell’abside destra, i resti degli otrantini decapitati), dove uccideranno il vescovo Stefano Agricoli.

Il 12 agosto, il 14 secondo la tradizione devozionale, è il giorno della decapitazione di 800 otrantini sul Colle della Minerva. Avvenne sulla famosa “pietra del martirio” (oggi conservata dietro l’altare nell’abside destra, all’interno della cattedrale di Santa Maria Annunziata) che, secondo una tradizione diffusa, si macchiò anche del sangue di un Turco, in seguito al “miracolo del primo ucciso”: si chiamava Primaldo e di lui si dice che, anche dopo la decapitazione, rimase in piedi. A quella vista, il boia avrebbe espresso la volontà di farsi cristiano, perciò i compagni lo uccisero all’istante.

(Per la foto sopra, ringraziamo il sito www.japigia.com)

Secondo gli storici, l’eccidio non accadde per motivazioni religiose, perché quegli 800 otrantini si sarebbero rifiutati di abbandonare la fede cristiana e abbracciare quella islamica, ma fu una rappresaglia politica. Da alcuni fonti, inoltri, si apprende che i Turchi erano abituati, nelle loro conquiste, a garantire buone condizioni di vita a chi si fosse arreso, a praticare lo sterminio in caso di resistenza. Poiché Otranto non ne voleva sapere di essere occupata, la violenza turca esplose.

Il 10 settembre 1481 avvenne la riconquista cristiana di Otranto, con alla guida il figlio del re di Napoli Ferrante d’Aragona, quel duca Alfonso di Calabria che, secondo alcuni storici, favorì una lettura religiosa dell’eccidio dell’anno prima. Egli, infatti, fece innalzare sul Colle della Minerva la chiesetta di Santa Maria dei Martiri che custodisse i resti dei decapitati (i cui corpi erano rimasti intatti, recita la tradizione devozionale, a distanza di molti mesi), poi traslati, alla fine della riconquista, nella cripta della cattedrale (il 13 ottobre dello stesso anno).

I resti dei decapitati, una volta nella cattedrale che li ospita ancor oggi, cominciarono da subito a esser venerati. Per questo, il vescovo Antonio De Beccariis, nel 1539, iniziò le pratiche per la santificazione ufficiale degli 800, ma solo durante il pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) si conclusero, con il riconoscimento di quegli otrantini decapitati quali martiri della fede. Era, quello, un periodo in cui si era riacutizzato lo scontro con gli islamici.

Storici e religiosi appaiono divisi, dunque, sulle motivazioni cui attribuire il tragico evento. Lo sono anche i letterati: se “L’ora di tutti” di Maria Corti è opera avvolta dall’aura del martirio, “Lo scriba di Casole” di Raffaele Gorgoni cerca di penetrare in quell’aura e scorgere le motivazioni politiche che si celano dietro. Vi consigliamo la lettura di entrambi i romanzi, perché possiate avere un personale punto di vista su una vicenda accaduta secoli fa, ma la cui aura (che sia politica o religiosa) continua ancora ad avvolgerci.

Chi è Roberta

Creativa, entusiasta, cerco di dare un'impronta personale a tutto quello che faccio. Perciò, quando scrivo di viaggi nel Salento e Puglia, provo a far venire fuori l'anima di questa terra. Svolgo anche attività giornalistica e di docenza in materie letterarie. Info: Sito | Google+ | Tutti i post scritti